Licenziamento disciplinare. Appropriazione indebita. Criterio della ragione più liquida.
TRIBUNALE DI SALERNO – Sezione Lavoro – 04.12.2018 n. 2861– Est. C. Petrosino
Massima: nozione di insussistenza del fatto contestato
Precipuamente si è affermato che la nozione di insussistenza del fatto contestato “comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo oggettivo ovvero quanto al profilo soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente”.
Massima: Appropriazione da parte del lavoratore di somme spettanti al datore di lavoro – Compromissione del vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro – appropriazione indebita.
Ad avviso del giudicante, i fatti commessi sono di “gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro”, essendosi il lavoratore reso responsabile di un’azione tale che, per le circostanze in cui si è realizzata, per la specificità oggettiva e soggettiva delle funzioni affidategli, determina una grave lesione del vincolo fiduciario (che è elemento essenziale del rapporto di lavoro), incidendo, di fatto, sulla legittima aspettativa del datore di lavoro al corretto adempimento dell’obbligazione contrattuale.
Nota: il caso analizzato dalle pronunce agli atti dello studio ha ad oggetto un licenziamento irrogato a seguito di episodi di appropriazione indebita ai danni del datore di lavoro commessi durante lo svolgimento dell’attività lavorativa attraverso modalità elusive.
Nello specifico, la prestazione svolta dal lavoratore comportava la detenzione ed il maneggio di denaro aziendale (provento di vendite di beni anch’essi di proprietà aziendale), del quale il prestatore aveva la custodia e l’obbligo di farne versamento al termine della prestazione. Avverso il suddetto provvedimento espulsivo, il lavoratore, prima con ricorso introduttivo ex art. 1 c. 48 L. 92/2012 poi con ricorso in opposizione ex art. 1 c. 51 della medesima Legge, proponeva impugnativa, adducendo l’illegittimità del licenziamento comminatogli.
Nel condividere il percorso motivazionale del giudice di prime cure, confermando dunque la legittimità del licenziamento irrogato, il Tribunale ha operato le seguenti considerazioni.
In primo luogo il giudicante ha accantonato le eccezioni preliminari concernenti la procedibilità dell’azione del ricorrente, facendo applicazione del consolidato principio della ragione più liquida. Tale canone, consente, infatti di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare: “imponendo un approccio interpretativo con verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico – sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost., con la conseguenza che il ricorso può essere deciso sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione – anche se logicamente subordinata – senza che sia necessario esaminare previamente le altre” cit sentenza in commento.
Tanto premesso il giudice ha focalizzato l’analisi sulla sussistenza del fatto contestato, ritenendo integrato tale accadimento non avendo il lavoratore provveduto a fornire alcuna esimente, a fronte della dimostrata sussistenza del fatto costitutivo del licenziamento.
Infatti, prendendo le mosse dal principio della Suprema Corte secondo cui “in tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con riferimento all’elemento psicologico del lavoratore, mentre spetta a quest’ultimo la prova di una esimente”, con specifico riferimento al caso in esame, invero l’organo giudicante ha sottolineato che: mentre parte datoriale ha dato prova del fatto ascritto al ricorrente, lo stesso non ha fornito dimostrazione alcuna della sussistenza di una causa di esclusione della colpevolezza. Infatti, mentre da un lato il fatto contestato era emerso in modo certo dagli accertamenti, il ricorrente dal canto suo non ha dedotto nulla di specifico per contrastare il preciso quadro accusatorio a suo carico se non limitandosi a sottolineare un generico “errore involontario”.