Licenziamento. Controlli difensivi c.d. occulti. Tempestività della contestazione e principio di immediatezza. Proporzionalità della sanzione.
TRIBUNALE DI SALERNO - Sezione Lavoro - Decreto di rigetto del 21.04.2020 n. cronol. 7747 – Giudice: A. M. D’Antonio
Massime:
Ammissibilità dei controlli difensivi c.d. occulti: le disposizioni de quibus (art 2, 3 e 4 dello Statuto dei Lavoratori – norme finalizzate a tutelare il lavoratore da controlli che potrebbero rilevarsi lesivi della dignità del lavoratore) non si applicano allorquando la vigilanza espletata, ancorché occulta, non si rivolga alla “attività lavorativa” nel senso enucleato dallo Statuto dei Lavoratori, ovverosia l’esatto adempimento delle attività demandate al prestatore, bensì abbia ad oggetto la commissione di fatti che risultino, in sé considerati, illeciti ai sensi dell’art. 2043 c.c., ovvero addirittura di rilevanza penale. Ne consegue, quindi, che (a tal fine) è essenziale la distinzione tra vigilanza sull’attività lavorativa e patrimonio aziendale (o comunque finalizzata all’accertamento di illecito) posto che- come confermato anche dalla dottrina giuslavoristica – quest’ultima è ritenuta libera stante la mancanza di specifiche limitazioni legali.
Tempestività della contestazione: “[…] l’immediatezza, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, va intesa in senso relativo, tenendo conto del momento in cui il datore viene a conoscenza dei fatti addebitati al dipendente, come anche dei tempi tecnici necessari alla valutazione dei fatti stessi (C. 282/2008). […] di conseguenza è di tutta evidenza che il dies a quo ai fini della verifica della tempestività della contestazione non va individuato nel giorno in cui fu operato l’accertamento da parte del personale investigativo, bensì in quello in cui furono operati i necessari riscontri documentali, giacché solo all’esito degli stessi poté riscontrarsi da un lato l’effettiva mancata emissione dello scontrino e dall’altro la mancanza di eccedenze di cassa, elementi che, solo congiuntamente considerati, giustificano una contestazione disciplinare.”
Proporzionalità della misura: “la giusta causa è una nozione di contenuto generico che deve essere specificato in sede interpretativa ed adeguato alla realtà, articolato e mutevole nel tempo” (C.12414/2002). È stato per l’appunto osservato che ai fini della valutazione della giusta causa del licenziamento, “è irrilevante l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale a carico del datore di lavoro, mentre ciò che rileva è l’inidoneità della condotta tenuta dal lavoratore a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto sintomatica di un certo atteggiamento del lavoratore rispetto agli obblighi assunti” (C. 5434/2003; cfr. C.8816/2017 – cass. civ. sez. lavoro Sent. ,22/11/2012 n.20613 cass. civ. sez. lavoro 11/02/2000 n.1558) […] e dunque anche il furto di modifica entità è idoneo a giustificare il licenziamento per giusta causa, per via del “valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e, quindi, alla fiducia che nello stesso può nutrire l’azienda”(C. 24014/2017).
Note:
il caso in analisi ha ad oggetto un licenziamento irrogato a seguito di un episodio di appropriazione indebita realizzatosi attraverso condotte elusive da parte di un lavoratore in danno al datore di lavoro durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, avvenimenti riscontrati all’uopo dal datore di lavoro incaricando un’agenzia investigativa.
Nello specifico, la prestazione lavorativa svolta dal lavoratore comportava la vendita di beni aziendali nonché la detenzione ed il maneggio dei relativi proventi in denaro del quale il lavoratore aveva l’obbligo di custodia e di versamento al termine dell’attività lavorativa. Pertanto, il datore di lavoro attraverso l’ausilio dell’Agenzia investigativa riscontrava condotte volte a celare l’effettivo incasso del denaro di cui effettivamente non trovava rimessa alcuna in proprio favore e pertanto provvedeva ad irrogare il provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa all’operatore.
Avverso tale provvedimento espulsivo il prestatore di lavoro proponeva impugnativa adducendo diversi profili di illegittimità; in particolate, il lavoratore deduceva: a) l’illegittimità dei controlli effettuati dal datore, essendo questi “occulti”; b) la mancata tempestività della contestazione ed il conseguente pregiudizio alla difesa del lavoratore; c) la mancanza di giusta causa e la violazione del principio di proporzionalità tra il comportamento imputato e la sanzione comminata.
Il Ricorrente tentava in primo luogo di sostenere l’illegittimità dei controlli c.d. “occulti”, sostenendo la violazione del combinato disposto degli artt. 2 – 3 – 4 dello Statuto dei Lavoratori. Ora, premesso che qualora i controlli posti alla base del licenziamento fossero effettuati in violazione alla legge questi sarebbero inutilizzabili nel giudizio di impugnazione tanto che il fatto contestato dovrebbe ritenersi insussistente, è doveroso chiarire che – come osservato nella Sentenza in commento - la ratio delle citate disposizione è tutelare il lavoratore da quei controlli intesi come lesivi della dignità personale del prestatore di lavoro, come ad esempio i controlli effettuati con modalità che potrebbero ingenerare nel prestatore il timore permanente di essere soggetto a controlli non riconoscibili come tali.
Orbene, come osservato da un granitico orientamento giurisprudenziale, le suddette disposizioni non trovano applicazione allorquando la vigilanza espletata, ancorché occulta, sia finalizzata all’accertamento di comportamenti illeciti posti in essere dai lavoratori e non già alla mera verifica dell’esatto adempimento delle attività che il prestatore di lavoro è chiamato a svolgere.
Infatti, il bilanciamento d’interessi (del prestatore di lavoro alla tutela della propria dignità e del datore di lavoro a verificare che il rapporto di lavoro si svolga in maniera corretta) qui viene ad inclinarsi verso l’esigenza del datore di difendersi da comportamenti antigiuridici.
Ciò posto, del tutto lecito è che il datore di lavoro si serva di organi esterni all’azienda per espletare i controlli necessari, ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, ritenendosi sufficiente a tal fine che – come nel caso di specie –gli addetti ai controlli operino come fossero “normali clienti” al fine di verificare la perpetrazione di illeciti e/o condotte criminose; infatti “diversamente le norme dello Statuto dei Lavoratori si presterebbero ad un’inammissibile strumentalizzazione agevolativa di comportamenti illeciti”.
In merito all’eccezione di tardività avanzata dal convenuto, il Giudice, allineandosi con i consolidati orientamenti di giurisprudenza e dottrina, chiarisce che il concetto di immediatezza è da intendersi in senso relativo ed osserva che occorre tener conto del momento in cui il datore di lavoro viene a conoscenza dei fatti addebitabili al dipendenti nonché dei tempi tecnici necessari all’accertamento ed alla valutazione dei medesimi fatti. Pertanto, il dies a quo ai fini della verifica della tempestività della contestazione non va individuato nel giorno in cui viene operato l’accertamento bensì in quello in cui si assume certezza dell’illecito perpetrato.
Da ultimo, il Giudice ritenendo il fatto accertato nella sua materialità, verificava se quanto occorso potesse giustificare la sanzione espulsiva del licenziamento per giusta causa.
A tal fine l’organo giudicante operava un’attenta analisi partendo proprio dal concetto di “giusta causa”, di cui da una definizione richiamando numerosi principi giurisprudenziali, in primo luogo richiamava il principio espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n 12414 del 2002 ove si definisce la giusta causa come una nozione a contenuto generico che deve essere specificata in sede interpretativa ed adeguata alla realtà, ciò posto, il Giudice richiamava poi quanto osservato dalla Suprema Corte con le Sentenze n. 19294 del 2008 e n. 18247 del 2009, le quali specificano che l’art 2119 c.c. nel richiamare il concetto di “giusta causa” rinvia ad una nozione etico – sociale, costituendo quindi una norma elastica, pertanto, compito dell’interprete è operare un interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa al fine di adeguarla alla realtà.
Orbene, premesso che al fine di verificare la proporzionalità tra la sanzione inflitta e la sussistenza della giusta causa l’art 30 comma III della l. n 183 del 2010 dispone che “nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati […]”, come disposto dall’organo giudicante, vi sono ripetute ed univoche pronunce giurisprudenziali che chiariscono che, ai fini della sussistenza della giusta causa dinnanzi a condotte sottrattive poste in essere dal prestatore ciò che rileva non è il quantum dell’apprensione bensì “l’oggettivo significato illecito del comportamento posto in essere”, infatti, ciò che giustifica il licenziamento senza preavviso non è la lesione dell’integrità del patrimonio aziendale bensì la “violazione del dovere di fedeltà del prestatore al datore che, attraverso la lesione dell’integrità del patrimonio aziendale, si perpetua”.
Ancora, il giudice qualifica come irrilevanti l’assenza di precedenti disciplinari (e quindi la presunta episodicità dell’evento) o l’esiguità del quantum dell’apprensione, individuando il requisito di giusta nel significato dell’illecito della condotta posta in essere (cfr. Cass. Civ. Sez. Lavoro, Sent. n. 20613 del 22.11.2012; cfr. Cass. Civ. Sez. Lavoro, Sent. n. 1558 del 11.02.2000; cfr. C. 5434/2003; cfr. C 8816/2017). Infatti, vero è che nel caso di specie l’accertamento da parte degli agenti investigativi copre un solo giorno, tuttavia, la portata della violazione posta in essere analizzata in ogni suo aspetto, assume i connotati di sintomaticità tali da far sorgere in capo al datore di lavoro il fondato dubbio sull’affidabilità del lavoratore e far venir meno quindi la fiducia ne